- Arte e Cultura
Affresco della Madonna in trono che allatta il Bambino con sant'Antonio Abate
Nell’opera della collezione della Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, la Vergine, seduta su un sontuoso trono di fattura gotica riccamente intarsiato, è ritratta nel naturalissimo gesto della madre che allatta il Bambino.
Assiste alla scena un Sant’Antonio, dalla lunga barba bianca, identificato dal saio monacale e dal caratteristico bastone con la campanella. Esso inclina la testa in direzione dei personaggi divini e rivolgendo lo sguardo verso lo spettatore lo invita alla riflessione e alla contemplazione.
Le figure, purtroppo, sono mutile della loro parte inferiore e una grossa lacuna deturpa anche la parte sinistra della persona di Maria privandola di parte del braccio, del manto e del seggio. Secondo la lettura critica che lo storico Panazza fece in un suo scritto del 1963, questo affresco risalirebbe al periodo in cui la famiglia Bembo cominciava la sua attività nella città di Brescia. In particolare, lo studioso lo avvicinava allo stile del capostipite Giovanni Bembo, riscontrando certe tonalità cromatiche tipiche della tradizione cremonese, rilevabili anche nell’affresco della Madonna col Bambino in trono e Sant’Anna fra le Sante Apollonia e Caterina collocato nella chiesa bresciana di San Francesco, attribuibile proprio a Giovanni.
Entrambi questi affreschi inoltre sono molto vicini anche ad un’altra Madonna bembesca, la Vergine in trono e santa martire, appartenente al Museo Civico Ala Ponzone di Cremona. Come sostenne anche Adolfo Venturi, tutte queste opere, nei primi decenni del Quattrocento, rappresentano mirabili esempi di pittura tardo gotica derivanti da traduzioni locali del linguaggio del celebre pittore milanese Michelino da Besozzo, riconoscibile nella definizione fluente e morbida del disegno e nelle caratteristiche forme degli occhi.
La maggior parte dei visi presenti in questi dipinti vengono realizzati partendo dallo stesso impianto di forma ovale allungata in cui i capelli o i veli lasciano scoperta la stessa porzione di fronte inoltre, gli occhi, i nasi, le bocche e le sopracciglia sono tracciati su un disegno che sembra essere ripetuto quasi invariato in tutti gli esempi citati. Anche il trattamento degli incarnati e dei panneggi, definito da passaggi cromatici molto delicati sulle stesse tonalità di colore, e gli identici decori delle aureole a linee raggiate limitate da una banda esterna formata da piccole sfere, contribuiscono ad avvicinare ulteriormente il dipinto della Pinacoteca alle opere di San Francesco e di Cremona.
Altri due aspetti, legati alla figura del Bambino tenuto in grembo dalla Madonna meritano attenzione. In particolare la forma del padiglione auricolare, che presenta lo stesso profilo e le stesse linee di ombreggiatura visibili nell’orecchio della Santa Martire dell’affresco cremonese e la caratterizzazione della tunichella infantile rossa, presente anche in altri tre dipinti quattrocenteschi di Madonne in trono nella chiesa di San Francesco, anch’essi ovviamente di attribuzione bembesca. Tutti gli aspetti di somiglianza riscontrati risultano estremamente importanti perché, oltre a permettere di collocare l’affresco della Vergine allattante della collezione bresciana nel panorama artistico di primo Quattrocento legato alla famiglia Bembo, potrebbero avvicinare quest’opera anche ad alcuni affreschi presenti nella ex chiesa di Sant’Antonio di Vienne, ora Aula Cavallerizza. In particolare modo un dipinto raffigurante due volti di Santi (forse Cosma e Damiano) nel vano di base della ex torre campanaria, contiene soluzioni formali assolutamente simili a quelle dell’opera della Pinacoteca, nonché quasi identici tratti stilistici.
Questo potrebbe costituire un elemento determinante anche per individuare la collocazione originaria sia di questa Madonna in trono sia di altri due affreschi, sempre della collezione della Pinacoteca. Presenti in un inventario dei Depositi Comunali del 1876, potrebbero, contro le ipotesi di Nicodemi che li definì pitture della Basilica di San Salvatore, risultare proprio frammenti strappati alla decorazione di questa ex chiesa bresciana (o del complesso monastico ad essa collegato) che venne definita in una relazione del celleraio antoniano Giovanni da Romagnano del 5 aprile 1462: «variis picturis depicta».
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