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Pittura murale a Tavernola Bergamasca

Tavernola conserva una discreta serie di dipinti murali nelle chiese e sulle facciate del borgo. La frana che ha coinvolto il fronte lago di Tavernola nel 1906 ha risparmiato, tra le altre collocate a mezza costa, le abitazioni a sud dell’abitato sulla strada provinciale. Sulla facciata dell’edificio ora sede dell’ufficio postale, sono emersi resti di affreschi rinascimentali. Il fabbricato ha subito varie modifiche che hanno stravolto il prospetto originario; si vedano le porte-finestra, con piccolo balcone in pietra di Sarnico dalle linee sei-settecentesche, che hanno distrutto parte della decorazione pittorica. Oggi sopravvivono un’Annunciazione e Sant’Antonio abate. Dell’affresco dell’Annunciazione, posto in alto, si è perso l’angelo del quale restano solo il giglio, parte del volto e una mano; mancanti sono pure il trono e una porzione del corpo della Vergine. Nel cielo sovrastante, trasportato su una nuvola di cherubini e preceduto da tre angeli, compare Dio Padre mentre invia la colomba dello Spirito Santo. Siamo nei decenni, a cavallo dei secoli XV e XVI, in cui nella chiesa di San Pietro, allora parrocchiale, operano maestranze di buon livello che potrebbero aver dipinto anche le abitazioni civili di Tavernola. Un raffronto è proponibile con il maestro che affresca il Cristo Pantocrator con i simboli degli Evangelisti in San Pietro: si confrontino sia la resa del volto della Vergine nell’affresco esterno, con quelli degli angeli in San Pietro, sia il disegno delle ali degli angeli in entrambe le opere. Tuttavia nonostante gli elementi di contatto, pare che gli affreschi esterni siano di un livello inferiore, forse da assegnare a pittori di bottega. Tra l’angelo annunciante e il leggio della Vergine, con qualche ingenuità prospettica, è raffigurato entro una ghirlanda tonda lo stemma del casato che ha commissionato l’opera. Lo scudo araldico, ancora medievale, raffigura nel mezzo superiore l’aquila e in quello inferiore una banda obliqua bianca su sfondo rosso. Un’insegna simile, ma con più bande e inserita in uno scudo già rinascimentale a muso di cavallo, è riprodotta alla sommità dell’affresco Madonna in trono col Bambino nella chiesa di San Pietro, eseguito nel 1497 per volontà della famiglia Foresti. Il Sant’Antonio abate presenta molte lacune. Il santo, ritratto frontalmente con gesto benedicente, è posto all’interno di un porticato di cui si conservano le parti inferiori dei pilastri sulla destra e l’arco della porzione sommitale. L’opera è di discreta qualità: si vedano la finitura delle pieghe del manto giallo ocra e la fattezza del pastorale gotico cui è appeso il campanello attributo del santo. Nella prima cappella a destra della parrocchiale di Santa Maria Maddalena si è conservato un affresco quattrocentesco raffigurante la Madonna in trono col Bambino. Dell’immagine originaria rimane solo la porzione centrale, incassata nel muro e impreziosita nei secoli successivi con raggera e cornice in stucco dorato. L’opera, oggetto di ritocchi nel tempo, è forse da accostare ad alcuni affreschi del gruppo dei ‘pittori clusonesi’ per la resa dei tratti, assai marcati, del volto. L’immagine risente della cultura tardo-gotica in particolare per l’austerità della Vergine e per la resa del panneggio seppur questo sia oggi ridotto allo stato larvale privato delle raffinate decorazioni a secco. Un dipinto murale quattrocentesco – la Madonna col Bambino fra i santi Antonio abate e Stefano – costituisce l’immagine di culto del piccolo Santuario della Madonna di Cortinica: racchiuso entro una sontuosa cornice lignea barocca è oggi ingiudicabile per le ridipinture. Il santuario di Cortinica merita una visita anche per i dipinti murali sulla facciata, realizzati nel ‘900, in quanto documentano uno spaccato della vita sociale della comunità tavernolese. Sono raffigurati vari episodi del secolo scorso: la Frana del 1906; l’Alluvione del 1950 (firmato Vittorio Manini, 1955); la Madonna che veglia su Tavernola (Luigi Arzuffi, 1982). I dipinti della Via Crucis della scalinata del santuario, realizzati nel 1948-1949, sono opera di Giuseppe Grimani di Castro.   Thanks to: Federico Troletti
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Scopri l'Alto Garda bresciano

Paesi a strapiombo sull'acqua, con vedute da vertigini. E strade scavate nella roccia, aspre come...
www.livelagodigarda.it

San Ponzo Semola

Fermata lungo la ferrovia Voghera-Varzi, attiva fra il 1931 e il 1966 ed oggi diventata pista ciclopedonale

Le Meraviglie Sacre di Canzo

Un filo che si tende tra borgo e montagna, tra sampietrini, ciottoli di vecchie mulattiere e sassi levigati dalla Ravella.
La Basilica di Santo Stefano in centro a Canzo circondata dalle abitazioni.

Redavalle

L'attuale Redavalle è l'erede di un centro più antico, San Martino in Strada. Nella zona esisteva un centro romano nominato negli antichi itineraria come Cameliomagus o Comillomagus (forme dovute alla scrittura trascurata di un probabile Camillomagus). Le distanze itinerarie converrebero maggiormente a Broni: certo è che a Redavalle sono stati trovati numerosi reperti romani, il che dimostra l'origine romana di San Martino in Strada, corrisponda o no a Camillomagus. Come molti centri antichi sopravvissuti alle invasioni barbariche, ebbe una propria pieve, dipendente dalla diocesi di Piacenza, il cui nome (San Martino in Strada appunto) obliterò l'antica denominazione della località. San Martino passò sotto il dominio pavese nel 1164, allorché era probabilmente una dipendenza di Broni; era comunque dotato di un castello, che fu incendiato dalle truppe dei confederati lombardi durante le guerre contro Federico I Barbarossa. San Martino in Strada, che si trovava un poco più a est di Redavalle, non si riebbe più dal disastro. Cominciò allora a prendere importanza Ridavalle (così chiamato nel 1250), situato al margine occidentale del comune di San Martino, che a poco a poco assorbì l'intera popolazione del vecchio centro. Attorno al 1560 anche al pieve di San Martino fu abbandonata e l'arciprete prese dimora presso l'oratorio di San Rocco a Redavalle (che prese il nome di San Rocco e San Martino). Redavalle faceva parte del feudo di Broni, appartenuto dal XIII secolo ai Beccaria e dal 1536 alla fine del feudalesimo (1797) agli Arrigoni di Milano. Come abbiamo detto, Redavalle sorgeva a ridosso del confine occidentale del comune, tanto che parte dell'abitato sconfinava nell'adiacente comune di Santa Giuletta; tale anomalia fu regolata nel 1866 con la cessione a Redavalle di un tratto del territorio di Santa Giuletta (denominato frazione Rile).   Redavalle: un piccolo borgo ai piedi delle colline dell'Oltrepò Pavese, poco più d'un paio di minuti d'auto lungo la via Emilia, ma paese come altri solo sulle cartine stradali. Quel punto, a metà tra le città di Casteggio e Broni, ora raccoglie 1000 anime o poco più: un tempo rappresentava il centro più importante sull'itinerario tra Iria (Voghera) e Placentia (Piacenza). Le sue origini risalgono al periodo pre-romano; fondatori e primi abitanti ne furono le popolazioni liguri e celtiche che si contesero il dominio sul territorio prima dell'avvento romano sul finire del III secolo a.C.: Cameliomago il suo nome, come riportato sulla Tabula di Peuntiger, una sorta di stradario che raffigurava gli itinerari romani, i centri maggiori e le stazioni di posta e di cambio. Tra queste, a 17 miglia romane da Iria e a 25 da Placentia, viene annoverato appunto l'abitato di Cameliomago, che estendeva le sue ultime propaggini fino alle attuali frazioni Manzo di Santa Giuletta e Ca' del Piano di Cigognola. Il centro è da individuare ai piedi delle colline, nel territorio di Redavalle e Cassino Po, disseminato di locande, stalle per cambiare i cavalli, osterie, botteghe e ville patrizie, delle quali non restano purtroppo grandi reperti: alcune lapidi, molte monete, urne, lucerne e suppellettili funerarie, ritrovate perlopiù nella necropoli Gragnolate, nei poderi Vacca d'oro e Bruciati e durante gli scavi ottocenteschi alla demolita fornace Bornaghi; presenti in diverse località pedecollinari redavallesi, lungo le quali correva la via Postumia, sono invece cocci, tavelle, mattoni e quant'altro possa testimoniare la presenza romana, costante e prospera fino alla decadenza dell'Impero. Proprio per la contingente posizione, l'antica Cameliomago subì, a partire dalla fine del IV secolo d.C. un progressivo impauperimento dovuto alle invasioni barbariche ed all'instabilità economica e politica propri di quei secoli. La lenta cristianizzazione del primo millennio fu per l'antica Redavalle comunque foriera di rilevanti novità storiche, religiose ed architettoniche, delle quali non restano però che pochi resti, primo fra i quali il pilastro in rovina che si vede all'ingresso del paese provenendo da Broni, in prossimità dell'incrocio con la strada che conduce a Pietra de' Giorgi. Quel pilastro, fatto edificare dall'arciprete Primo Andrea Sterpi nel 1724, sorse per commemorare la Pieve di San Martino in Strada, eretta probabilmente nel IX-X secolo d.C. e capace, per alcuni secoli, di accorpare a sé nel culto divino le parrocchie e le popolazioni dei paesi limitrofi, tra cui Cigognola, Pietra de' Giorgi, Barbianello, Mornico Losana e Santa Giuletta. Si trattava di una Pieve importante, dotata di strutture d'accoglienza per i viandanti ed i pellegrini della via Romera, il cui potere venne però scalfito nei secoli dalle pestilenze e dall'incuria dei reggenti, che condussero all'abbandono ed alla decadenza la chiesa, sostituita per le celebrazioni da un oratorio nel centro abitato, dedicato a San Rocco, poi ampliato all'inizio del XVIII secolo su progetto dell'architetto Veneroni, fino all'attuale fabbrica, magistralmente restaurata nell'ultimo decennio del secolo scorso. Il dominio dei Franchi, cui succedettero le dominazioni feudali locali e il potere dei singoli Comuni furono secoli bui per la storia di Redavalle: è purtroppo da ricordare l'incendio al castello del paese, operato nel 1164 dai Piacentini e dai Cremonesi, in lotta contro la città di Pavia, alleata di Federico Barbarossa, evento rimasto scolpito nella tradizione popolare ed effigiato sullo stemma municipale. Nei secoli successivi seguirono alle dominazioni rinascimentali dei Visconti-Sforza, quella degli Spagnoli e, dal 1713, quella degli Austriaci. Il paese che veniva sempre più a formarsi intorno al predetto oratorio, fu abbellito nel XVII secolo dalla costruzione di due cappelle all'ingresso del centro abitato, ora restaurate e adibite l'una al culto della Madonna e l'altra al ricordo dei Caduti. Nel 1743, con il Trattato di Worms, il territorio di Redavalle, come tutto l'Oltrepò Pavese, passò sotto il dominio sabaudo, per divenire poi parte della provincia di Pavia nel 1861. Fonte: Comune di Redavalle PHOTO:  Portale www.visitoltrepo.com

Borgarello

Borgarello si trova nel Pavese, nella pianura a nord di Pavia, lungo il Naviglio Pavese. In epoca viscontea fu incluso nel Parco Nuovo, vasta tenuta di caccia tra il Castello di Pavia e la Certosa.   Il Parco Visconteo Anticamente Barco (Barcho Vecchio) di Pavia, con un'ampiezza di 14 km2e un perimetro di 15 km, fu voluto da Galeazzo II Visconti dopo il 1360. Recintato con un muro di mattoni alto 4 braccia (due metri e mezzo), si estendeva dalla città verso nord sino a Cantone delle Tre Miglia (Borgarello), San Genesio e Due Porte. Una trentina d'anni dopo, il successore Gian Galeazzo ampliò il Parco sino a 22 km2, estendendolo verso Nord da tre a cinque miglia e costruì un nuovo muro, a proseguimento del primo, a racchiudere Torre del Mangano, Porta d'Agosto, Ponte Carate e Porta Chiossa. Il muro di cinta fu completato intorno al 1399: lungo quasi 25 km, aveva uno spessore di tre teste di mattone (quasi 90 cm), fondamenta profonde due braccia (circa m 1,25), era alto 4 braccia (due metri e mezzo) e terminava con un tettuccio alto un altro braccio. Alla costruzione e alla manutenzione del Parco furono necessarie massicce opere di sistemazione idraulica, opere di fine ingegneria, che come i Navigli milanesi anticiparono l'opera di Leonardo. Il parco era ricco di boschi, di querce, castagni, ontani e olmi. Un grande giardino di caccia, dai paesaggi magicamente intrecciati di natura e di artificio, nel quale persino i nomi dei luoghi vennero cambiati e quasi tutte le tracce più antiche si persero per celebrare le opere e le glorie della nuova famiglia di Signori, eccettuati solo il nome di Borgarello e le dediche delle due chiese di Borgarello e di Torre del Mangano a due "santi guerrieri": l'una a San Martino di Tours, santo legato ai pellegrinaggi, l'altra a San Michele (dedicazione tradizionalmente legata alla storia del Longobardi). Le porte del Parco conservano ancora il loro nome, a distanza di oltre sei secoli, mentre le tracce di dedicazioni più antiche sono sepolte e scomparse. Dopo Ludovico il Moro (1500) iniziò la decadenza del Parco. Dopo la battaglia di Pavia (1525), nel muro di cinta furono aperte numerose brecce, e poi ampi tratti di muratura caddero o furono asportati dai contadini per reimpiegarne i mattoni, sino alla sua totale demolizione. Il Naviglio Pavese Iniziato nel XVI secolo dagli Spagnoli e poi interrotto, il progetto fu ripreso in età napoleonica e ultimato sotto il governo austro-ungarico nel 1819. Fino all’ultimo dopoguerra fu importante come canale di irrigazione e come via di navigazione; chiatte trainate da cavalli trasportavano allo scalo milanese di Porta Ticinese la ghiaia del Ticino (e occasionalmente anche passeggeri disposti a un viaggio piacevole, ma lungo un’intera giornata). La navigazione era favorita dalla lievissima pendenza e dalla presenza di conche – di concezione leonardesca – per superare i dislivelli.  L’Alzaia, che costeggia il Naviglio, nei documenti dei secoli XV e XVI, era detta “la stradella del Duca” o “ stradella del Signore”. Fino a tempi recenti, dove ora è situato il ponte, un muretto in granito delimitava l’affaccio da Borgarello sull’Alzaia: il cosiddetto “sasso”. Da qui il modo di dire locale “d’la Rüsa al Sass” per indicare i due limiti estremi est e ovest del paese.  Lungo l'Alzaia del Naviglio Pavese scorre la ciclabile che  da Milano conduce, seguendo le acque del fiume per 30 km, alla Certosa di Pavia e con altri 6 km al centro storico di Pavia. Cascina Repentita Vestigia dell'antico Parco Visconteo sono ancora visibili presso la Cascina Repentita - già citata con questo nome in un atto del 1111 (probabilmente per il fatto che nell'Alto Medioevo ospitava, o aveva ospitato, una comunità di recupero per le "prostitute pentite di Pavia"), situata sulla strada interpoderale che collega la Cantone Tre Miglia ai borghi di S. Genesio e Mirabello, citata già in un atto del 25 gennaio 1111. Una cascina con la tipica base quadrata delle costruzioni rurali lombarde, rimaneggiata e con la parte storica in cattivo stato di conservazione. Tra le risaie e vicino alla linea ferroviaria. La rese famosa Francesco I, re di Francia. Questa è una cascina di importanza storica. Cercate la lapide che ne spiega le ragioni. La leggenda narra che la Zuppa alla Pavese nacque qui, preparata da una contadina, come piatto improvvisato; ne conoscete la ricetta? Lo scontro tra francesi e spagnoli è iniziato “sul far dell’alba”, chiudete gli occhi e immaginate i colori e i rumori della battaglia. Vuole la tradizione che il giorno della sua sconfitta Francesco I vagasse per le campagne attorno alla città, stanco e affamato ("Tutto è perduto, fuorchè l’onore e la vita, che è salva"). La vita gliel’avrebbe salvata una contadina, cui il sovrano si era rivolto per avere del cibo. "Sul fuoco del camino bolliva un brodo di barlande (borragine) e non di carne", merce rara per l'epoca, una fetta di pane casereccio, cotto la domenica nel forno comune con le altre donne della cascina, e un uovo fresco.  Il re apprezzò e firmò l'atto che lo allontanò per sempre da queste lande. Francesco I, tornato in patria dopo un anno di prigionia, introdusse a corte questa zuppa che ebbe un tale successo da divenire ben presto una celebre pietanza destinata a fama secolare. Fonte: Comune di Borgarello Photo: Comitato “Villa in Comune”

Travacò Siccomario

Il comune di Travacò Siccomario si trova due chilometri a sud di Pavia, tra il Ticino e il Po, presso la loro confluenza e insieme al comune di San Martino Siccomario è parte del territorio denominato Siccomario. Il Siccomario: nome e territorio nei documenti più antichi Per affrontare il problema dell'origine del nome alquanto inconsueto di Travacò Siccomario, occorre esaminare separatamente i due termini "Travacò" e "Siccomario", attenendosi il più possibile ai dati oggettivi desumibili dalla documentazione archivistica disponibile. Da quest'ultima appare chiaro, come si vedrà, che le suggestive interpretazioni che derivano "Siccomario" da "sicut mare" o da "siccum maris", azzardate da qualche cronista, sono del tutto fantasiose e prive di fondamento, come anche quelle che pretendono di derivare il nome da una sorta di categoria di bonificatori di paludi detti "sighemarii". Prima di entrare nel merito, tuttavia, occorre delimitare con chiarezza l'estensione territoriale del Siccomario. Delimitazione geografica del Siccomario Il toponimo "Siccomario", o meglio il coronimo, poiché si tratta della denominazione di un territorio e non del nome di singole località o centri abitati, identifica una zona ben determinata. Nel 1330 il cronista Opicino de Canistris descrive così il territorio che si trova a sud di Pavia: "La parte di mezzo del territorio a sud della città è delimitata da tre fiumi. Il Po a 5 miglia, il Gravellone a 500 metri ed il Ticino lungo le mura stesse della città. La parte più piccola del territorio in questa direzione si trova tra il Ticino e il Gravellone, appartiene tutta al Comune [di Pavia], e contiene soltanto prati ed il luogo della giustizia". E' l'attuale Borgo Ticino. "La seconda parte è piena di ottimi campi e produce frutti abbondanti di diverso genere". Questa parte, che si trova tra il Gravellone ed il Po, si chiama Siccomario ("Siccomarium appellatur"). Qui nascono vini che d'estate non fanno male, perché di bassa gradazione, e che quindi hanno i loro pregi pur essendo di qualità non elevata. In vicinanza alla città nel Siccomario è un luogo detto volgarmente Terra Arsa, distante dalle mura un miglio e mezzo, dove fu allevatoS.Martino vescovo di Tours. C'è poi un'altra parte, al di là del Po, che è l'Oltrepò vero e proprio. Poco oltre, entrando più in dettaglio, Opicino aggiunge che "questa città ha tutt'intorno, specialmente nel Siccomario, molti orti e giardini e molti pomarii", cioè frutteti dove si coltivano mele. Dalla descrizione sembra emergere quindi che il Siccomario fosse la terra tra Gravellone e Po e che una parte di essa, nella quale all'epoca di Opicino si trovava l'abitato di S.Martino, si chiamasse "Terra arsa". Questo fatto, del resto, è suffragato dalla documentazione medioevale nella quale, quando si parla di San Martino, si dice sempre "San Martino in terra arsa" e non "in Siccomario". L'estensione del termine Siccomario a San Martino, quindi, è sicuramente un fatto più recente. Il termine "Siccomario" nei documenti più antichiIl documento più antico di cui disponiamo che alluda all'attuale zona del Siccomario è una donazione che Carlo Magno fa al grande Monastero di S. Martino di Tour, nel 774, dopo aver assediato Pavia e sconfitto i Longobardi. In questo documento, pur trattando di chiese e terreni siti nel Siccomario, questo termine non compare mai. In quest'epoca, e ancora per qualche secolo, il nome "Siccomario" continua a non comparire. Analogamente compare l'aggettivo "arida", ma non "terra arsa", che invece fa la sua prima comparsa nel 909, in un documento di Berengario I che, parlando dei beni che appartengono alla canonica di S. Giovanni Donnarum di Pavia, cita "pratellos quinque" [5 praticelli] in loco quae dicitur terra arsa pratum unum cum silvula" cioè "nel luogo che si chiama terra arsa un prato con un boschetto". Quindi in quest'epoca, e fino a tutto il secolo decimo, abbiamo solo il nome "terra arsa" che mentre non esiste ancora il toponimo Siccomario. Dopo quasi due secoli di vuoto, senza alcuna documentazione pervenuta, in un documento del 2 ottobre 1099 arriviamo finalmente alla prima menzione del "Siccomario". L'Abbazia di S.Maiolo in Pavia, infatti, vende dei beni "in loco et fundo Sigemario at Pozzallo". ("Locus et fundus" è un'espressione usata, in genere, per indicare un centro abitato rurale di piccole dimensioni, di solito un paese col suo territorio). In ogni caso, la spiegazione più logica è che "Sigemarius" sia un nome di persona germanico, attestato molto bene in Lombardia già nei secoli VIII° e IX°, assai probabilmente nemmeno longobardo ma franco, anche se questo non si può giurare in assoluto. Chi fosse questo Sigemario, perché avesse dei beni in questa zona e perché abbia lasciato il suo nome è oscuro, tuttavia c'è un'interessante coincidenza che rafforza tale interpretazione, infatti esisteva in Pavia, nel secolo IX°, un Monastero "de Sigemario". Questo fatto basta già, comunque, ad attestare l'esistenza e la circolazione di questo nome. Il Monastero "de Sigemario" si chiamava così proprio perché era stato fondato da un tizio di nome "Sigemario". Anche questo Monastero però non si sa di preciso dove fosse e dal secolo X° non se ne ha più notizia. Quindi la spiegazione più logica è che "Siccomario" derivi da un nome di persona diventato toponimo. La spiegazione tradizionale, dunque, era quella del "secco mare" finché non è arrivato l'Olivieri che, negli anni intorno al 1930, ha dato questa spiegazione legata al nome "Sigemarius". L'Olivieri è un grande studioso di toponomastica che ha scritto, tra le altre cose, un dizionario di toponomastica lombarda e, tutti quelli che sono venuti dopo l'Olivieri, hanno ripreso la sua interpretazione. Quindi in sostanza il nome Siccomario, nella forma Sigemario, molto simile ad un nome di persona, compare per la prima volta nel secolo XI°, nel 1099, e si afferma da allora in modo definitivo. Altri importanti riscontri documentaliDa quest'epoca in poi, ed in particolare a far data dal 1120, abbiamo numerosi documenti perché i beni che l'Abbazia di S.Maiolo possiede in quest'area, soprattutto terreni, vengono dati in concessione, venduti, ampliati mediante nuovi acquisti. Quindi le vicende di quest'area sono sempre meglio documentate. Vediamoli rapidamente. Il primo documento dopo quello del 1099 è datato 1120 e parla di una "clausura super fluvium Ticinum" (la "clausura" era un terreno recintato, normalmente delle vigne). "Super fluvium Ticinum" vuol dire "oltre il fiume Ticino". Il documento prosegue poi affermando "in loco et fundo Casellae qui dicitur in Sigemario prope Pozzolum". C'è tutta una serie di documenti, d'ora in poi, che parla del Ticino, di "loco et fundo Sighemario" con indicati vari luoghi specifici ubicati nel territorio del Siccomario. Ed ancora, nel 1130 si parla di terre "in Sigemario" che vengono donate alla Chiesa di S.Maria di Betlem. Ad un certo punto, nel 1171, compare un appezzamento di vigna posta in "Sigemario vetulo", cioè nel Siccomario vecchio. Quindi, in quest'epoca, si sente la necessità di definire un territorio del Siccomario vecchio per distinguerlo da un altro territorio, che probabilmente si è aggiunto, che prima non si chiamava così, e che si intende come Siccomario nuovo. Questa denominazione fa quindi pensare ad un ampliamento del territorio che si chiamava ormai correntemente Siccomario. Per tutto il secolo XII° abbiamo un succedersi di denominazioni finché, nel 1180, compare un nuovo interessante elemento del paesaggio: "in loco et fundo Sigemario prope Ruptam". E' la prima volta che compare il nome della Rotta, che in precedenza non era mai attestato. A questo riguardo è interessante la testimonianza dell'Anonimo dell'800 il quale afferma che la Rotta divide in metà il Siccomario e sulla sinistra si trova la "terra arsa", cioè il territorio di San Martino, mentre sulla destra si trova il Siccomario vero e proprio. Ciò che separava il Siccomario dalla "terra arsa" era quindi la Rotta. C'è poi una bolla papale del 1187, per il Monastero di S.Agata di Pavia, dove vengono elencati molti beni sparsi un po' per tutta l'Italia Settentrionale. Ad un certo punto si parla di "prata omnia super Ticinum" cioè "tutti i prati oltre il Ticino" senza però indicare dove. Poco dopo, nella stessa bolla troviamo invece "ad Sanctum Martinum in terra arsa campum unum", ma ancora non si parla di Siccomario. Questo documento, pur essendo del 1187, assai probabilmente ricopia fedelmente un documento molto più antico, assai probabilmente anteriore al secolo XI°, proprio perché sarebbe impossibile in quest'epoca non parlare del Siccomario, parlando di terre che si trovano tra il Ticino e il Po. Sempre nello stesso documento, andando avanti, troviamo ancora il "Sigemario vetulo" (Siccomario vecchio) e più oltre "S.Maria di Siccomario" che, qui si precisa, e siamo nel 1187, è sotto la giurisdizione del Monastero di San Maiolo. A proposito del termine "Travacò" Riguardo al termine Travacò possiamo prendere come riferimento il "Dizionario di toponomastica lombarda" dell'Olivieri e tutti i numerosi commentatori e studiosi che vi fanno riferimento, i quali danno l'indicazione di "travacca" come di un elemento di contenimento di un corso d'acqua, qui particolarmente indicato data la natura dei luoghi.La "travacca" sarebbe quindi qualcosa che si presenta come un elemento di rinforzo di un argine. Del resto è un nome diffuso in Lombardia, infatti esistono cascine "Travacca", "Travaccò", ecc. La finale in "o" accentato è tipica di altri nomi che originariamente terminavano in "atum". Quindi in origine doveva essere "trabaccatum" cioè luogo dove è stata costruita una "trabacca", cioè un elemento di sostegno, di difesa, lungo un corso d'acqua. Fonte: Comune di Travacò Siccomario

In viaggio sul Treno dei Sapori

Itinerari a scelta tra Brescia e Pisogne. Comfort e tecnologia per godersi la Franciacorta e il Lago d'Iseo dal Treno dei Sapori

Gargnano

Gargnano: uno dei più bei centri storici del lago di Garda.
Lungolago e Centro di Gargnano

Museo "Casa del Podestà"- Fondazione Ugo da Como

Musei a Lonato del Garda

Rocca visconteo-veneta di Lonato del Garda

La Rocca di Lonato del Garda è una delle fortificazioni più estese della Lombardia. Dal camminamento di ronda si ha una splendida vista sul bacino meridionale del Lago di Garda

Bellagio

Ville, parchi, un romantico lungolago e un museo di storia marinara. Bellagio è una delle località più celebri del Lago di Como
Bellagio, Lago di Como